La Nona di Beethoven, duecento anni dopo

A Vienna, esattamente duecento anni fa, il 7 maggio 1824, era un venerdì. Al Kärntnertortheatrer, il Teatro di Porta Carinzia, lo stesso in cui cinque anni dopo avrebbe fatto il suo debutto viennese un tale Chopin, si tiene la prima esecuzione della Nona di Ludwig van Beethoven. 

La Sinfonia n. 9 in Re minore per soli, coro e orchestra, op. 125, detta più brevemente Nona o Sinfonia corale, è da tutti conosciuta per contenere la messa in musica di un'ode del poeta tedesco Friedrich Schiller, An die Freude, Alla gioia, che è sicuramente il brano più conosciuto dell'opera, anche perché l'Unione europea ha fatto della sua versione strumentale il suo inno.

Beethoven in effetti conosceva l'ode di Schiller, pubblicata nel 1786, grazie a un amico del poeta che insegnava a Bonn nella stessa università in cui Ludwig frequentava le lezioni di filosofia, e già dal 1793 sappiamo che ne avesse in mente un adattamento musicale. Il tempo propizio arriverà solo molti decenni dopo: il compositore, che era giunto alla sinfonia molto tardi e ne aveva composte otto nel solo periodo 1800-1812 per poi fermarsi, viene richiamato a questa forma musicale, divisa generalmente in quattro movimenti e suonata da tutta l'orchestra, da una commissione della Società filarmonica di Londra. 

In origine la Nona… erano due! Ludwig infatti aveva in mente da tempo anche un'altra sinfonia, in cui avrebbe inserito per la prima volta delle parti vocali (allora la sinfonia era una forma rigidamente strumentale: anche in questo sta l'originalità del compositore di Bonn). Nel 1822 le due idee si fusero insieme, e Beethoven riunì, anche con una certa sicurezza, dimostrataci dalle assai poche cancellature sul manoscritto originale, tutto il materiale che aveva abbozzato, appuntato o scritto negli anni. 

Nel cumulo, anche quel tema che accompagnerà proprio il primo verso dell'ode di Schiller:

«Freude, schöner Götterfunken / Tochter aus Elysium»

«Gioia, bella scintilla degli dèi / figlia dell'Eliseo»

Questa frase musicale è sicuramente uno dei frammenti della Nona composti per primi. Beethoven ha sperimentato il suo utilizzo, seppur in forme leggermente variate, in altre due opere: una cantata per tenore del 1794, WoO 118, e la famosa Fantasia corale in Do maggiore, op. 80, la quale sembra interamente una specie di "banco di prova" dell'omonima sinfonia, con l'unica differenza che il prototipo vede anche la presenza del pianoforte, mentre la versione finale fa uso dei soli strumenti dell'orchestra, per l'occasione ingrandita a dismisura fino a centoventi elementi.

Comparazione fra i temi a.) della cantata per tenore, WoO 118;
b.) della Fantasia corale, op. 80; c.) della Sinfonia n. 9, op. 125.


Ormai è chiaro che il testo dell'"inno alla gioia" non è solo opera di Schiller. Beethoven, per dare maggiore organicità al quarto movimento, quello che ospita l'ode, ha voluto integrare il testo del poeta con alcune parole scritte da lui stesso. Inizialmente le sue aggiunte erano molto più ampie: le tracce di alcune frasi, poi scartate, nei manoscritti preparatorî ci suggeriscono che in origine la voce avesse il compito di introdurre i versi di Schiller con dei recitativi (quegli stessi che nella stesura finale sono suonati dai violoncelli e contrabbassi, probabilmente). Suggestiva è la prima frase, incompiuta: «Non questo… ricordiamoci della nostra disperazione».

Come il testo della Nona non è solo di Schiller, così il solo testo di Schiller non è la Nona.
La sinfonia infatti non coincide con l'"inno alla gioia", anzi. L'opera può essere considerata la prima di quelle che Mahler chiamerà "sinfonie mondo":

«Aber Symphonie heißt mir eben: mit allen Mitteln der vorhandenen Technik eine Welt aufbauen.»

«Ma la sinfonia per me significa questo: con tutti i mezzi della tecnica a disposizione, costruire un mondo.»

La Nona non è la prima sinfonia "impegnata": Beethoven aveva già riposto nell'Eroica gli ideali rivoluzionari e quelli napoleonici, poi delusi. Ma è la prima sinfonia che ribalta i canoni classici di questa forma musicale, introducendo le voci e invertendo l'ordine lento/veloce tra secondo e terzo movimento, e lo fa perché non è una semplice opera musicale. La sinfonia, dalla Nona in poi, starà alla musica come il romanzo sta alla letteratura. Sarà un iceberg, come quello pensato da Hemingway. Come in un romanzo la narrazione è solo una piccola parte dell'universo in cui questo è ambientato e ne suggerisce le caratteristiche, così lo scorrere della musica è solo un tratto del mondo che si nasconde dietro una sinfonia. 
Nella Nona, questo universo coincide con la visione filosofica, artistica, sociale che Beethoven aveva del suo tempo e del suo spazio. La sinfonia è la sublimazione dell'etica e dell'estetica beethoveniana, il manifesto e il testamento del suo compositore. È il manifesto di un periodo storico, segnato da conflitti e rivolgimenti per il raggiungimento di valori universali quali la libertà, l'eguaglianza («Alle Menschen werden Brüder», «tutti gli uomini diventano fratelli»), la gioia. 
E se questi valori sono davvero universali, è il manifesto di noi tutti, dell'umanità di tutte le epoche e di tutti i continenti. Ed è l'apice della nostra arte, se questa è l'espressione più alta della nostra umanità.


Torniamo a Vienna, esattamente duecento anni fa, il 7 maggio 1824, un venerdì. E immaginiamoci il pubblico che entra nella sala in cui si terrà la prima. Gli orchestrali sono incerti: hanno provato solo due volte, e le partiture di Beethoven, soprattutto quelle corali, sono assai difficili: ma lui, nonostante le loro richieste, non ha mai accettato di semplificarle. In ogni caso, a dirigere l'esecuzione fu il maestro di cappella, Michael Umlauf. Beethoven, ormai completamente sordo, rimase sul palco per tutta la durata dell'esecuzione e diresse, per quanto gli era possibile, i musicisti, cercando di percepire il ritmo con le vibrazioni e il tatto.

La sinfonia inizia. Quinte vuote, in pianissimo, che si stagliano nel silenzio: ricordano un'orchestra che si accorda. Per Nietzsche rappresentavano il caos primordiale, dal quale si staglia con vigore il primo tema. Il re minore si libera dal nulla; noi lo contempliamo. Guardiamo una tempesta di neve, un uomo che la affronta. Che si dispera, arranca, cerca di farsi forza. E non risolverà nulla.
Il secondo movimento, lo Scherzo, è un rito bacchico, una fiera paesana le cui voci crescono e si sovrappongono fino alla perdizione, energetica e martellatamente forte. La Natura è invasa dall'uomo: a poco serve il Trio, arioso, pastorale, effimero.
È il terzo movimento quello che ci riporta alla pace, alla regola, al controllo. La lirica e cantabile contemplazione è interrotta solo di tanto in tanto da una tagliente e minacciosa fanfara, che si fa viva una volta per tutte nel Presto con cui inizia in quarto movimento. Schreckensfanfare, l'ha chiamata Wagner: la fanfara del terrore. 
I bassi rispondono, dubbiosi, e si approssimano, con la viola e col fagotto, al tema della gioia, ancora non cantato. Dopo una seconda fanfara, che suona come una ritorsione, una minaccia, un «come osi?», la voce finalmente si fa forza e inizia a declamare, subito appoggiata dai suoi compagni e dal coro tutto. 
Qui il quarto movimento inizia a configurarsi come una sinfonia, con una frammentarietà a volte criticata, perché a nemico sconfitto il tenore invita tutti ad andare avanti («Laufet, Brüder, eure Bahn», «Fratelli, percorrete il vostro cammino»), ma lo fa con un secondo segmento, una marcia alla turca, con grancasse, piatti e triangolo. Il terzo episodio musicale è un momento di raccoglimento solenne e quasi sacro, mentre il quarto un bel fugato che cresce, cresce, cresce fino alla conclusione dell'opera.

A questo punto, dal nostro posto in platea, vediamo il contralto avvicinarsi a Beethoven e prenderlo delicatamente alle spalle per voltarlo. Il pubblico in ovazione agita fazzoletti e cappelli per mostrare il proprio gradimento e la propria ammirazione al compositore, che data la sua sordità ormai totale non avrebbe sentito gli applausi.

Alziamogli un fazzoletto anche noi.

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